Presentato in anteprima mondiale alla 81ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Queer di Luca Guadagnino è stato uno dei grandi esclusi dalla recente stagione dei premi, nonostante l’accoglienza calorosa da parte della critica internazionale. Dopo mesi di attesa, il film arriva finalmente nelle sale italiane il 17 aprile, distribuito da Lucky Red. Un’opera destinata a dividere, ma anche a lasciare un segno profondo nel panorama cinematografico contemporaneo. Con Queer, Luca Guadagnino firma il suo film più spiazzante e radicale. Lontano dalle convenzioni narrative e formali che hanno reso celebri opere come Chiamami col tuo nome o il più recente Challengers, Queer rappresenta una discesa vertiginosa nell’abisso del desiderio e della solitudine, nonché un’interpretazione visiva dell’omonimo romanzo postumo di William S. Burroughs, autore cardine della Beat Generation. È cinema che si muove per vibrazioni, per impressioni: la materia narrativa diventa liquida, fluttuante, priva di certezze.
William Lee (Daniel Craig), è un uomo sulla soglia della mezza età che vive a Città del Messico. Trascorre le sue giornate in solitudine per lo più, se si escludono i contatti con gli altri appartenenti alla piccola comunità di americani. Un giorno però, William incontra Eugen Allerton (Drew Starkey), un giovane studente appena giunto in città. Questo incontro cambierà tutto, ma nonostante tra i due ci sia qualcosa, dovranno affrontare le loro paure e superare i tanti passi falsi che minacciano di infrangere questo sentimento ancora fragile. Riusciranno, alla fine delle loro tribolazioni, a incontrarsi finalmente e a stabilire una connessione reale tra di loro?
Burroughs scrisse Queer tra il 1951 e il 1953, ma lo pubblicò solo trent’anni dopo, incapace fino ad allora di confrontarsi apertamente con il dolore che ne alimenta ogni pagina: la perdita della moglie, la scoperta della propria omosessualità, il senso di alienazione esistenziale. Guadagnino, da sempre affascinato dal testo, lo adatta forse nell’unico modo possibile, trasformandolo in un’esperienza visiva e sensoriale. Più che una trasposizione, Queer è un film che si fa eco, rifrazione emotiva del testo originale. Guadagnino prende le atmosfere, i vuoti, gli spasmi interiori del romanzo e li trasla in immagini, suoni e silenzi, costruendo un viaggio soggettivo che abita la mente del protagonista più che il mondo reale. Lee si muove come un sonnambulo in un sogno che sfuma sempre più nell’incubo, un mondo dove ogni contatto umano è potenzialmente tossico, ogni parola è fraintesa. Il dolore della scrittura di Burroughs diventa immagine pura, depurata da ogni riferimento diretto, ma intrisa della stessa sofferenza.
Dopo aver flirtato con il cinema mainstream e con generi più accessibili, Guadagnino sembra tornare a un cinema più personale, ma con uno sguardo ancora più radicale, sperimentale. Se Suspiria era barocco e politico, Queer è astratto e sensoriale. È un film che lavora per sottrazione e rarefazione, che alterna momenti di grande intensità emotiva a lunghe pause contemplative, quasi meditative. Guadagnino esplora i confini del linguaggio cinematografico con coraggio, evitando ogni compiacimento estetico: la macchina da presa indugia sul volto segnato di Daniel Craig, ne segue i movimenti con discrezione, lo isola nel quadro come fosse un sopravvissuto a sè stesso. Il tempo narrativo si dilata, si frantuma, abbandonando la linearità per abbracciare la deriva del pensiero. È un cinema che si disarticola per mostrare la fragilità, che non teme il silenzio né l’incomprensione, e che fa della dissonanza un valore espressivo.
Al centro di Queer non c’è l’amore, ma il desiderio come forza distruttiva e disgregante. Guadagnino esplora la sessualità non in chiave erotica, ma come interrogazione identitaria e abisso psicologico. I personaggi non sono mai del tutto definiti, né in ciò che desiderano né in ciò che temono. La sessualità diventa un campo minato, un territorio attraversato da tensioni, ambiguità e fallimenti comunicativi. Il desiderio, per Lee, è una pulsione quasi allucinatoria, una dipendenza che lo consuma. Il rapporto con Allerton diventa un prisma attraverso cui guardare la fragilità delle categorie di genere e identità: l’attrazione non è mai semplicemente fisica, ma intrisa di potere, di bisogno, di disperazione. In questo contesto, la sessualità è anche politica, perché mette in crisi i confini tra normalità e devianza, tra amore e ossessione.
La performance di Daniel Craig è sorprendente, forse la più intensa e vulnerabile della sua carriera. Abbandonate definitivamente le pose eroiche di James Bond, Craig incarna un uomo alla deriva, consumato dal desiderio e dalla frustrazione, incapace di amare davvero e incapace di smettere di cercare amore. Il suo Lee è grottesco, patetico, ma anche straziante nella sua disperata umanità. Craig lavora per sottrazione, sottrae virilità, orgoglio, sicurezza, fino a ridurre il personaggio a un nervo scoperto. Nel ruolo di Allerton, giovane ex-marine oggetto delle attenzioni di Lee, Drew Starkey si rivela una presenza magnetica. Il suo personaggio è ambiguo, sfuggente, ora complice ora freddo, sempre al limite tra seduzione e repulsione. Starkey riesce a rendere questa ambiguità senza mai cadere nello stereotipo, regalando al film una tensione costante. Ogni suo gesto è calcolato, ogni silenzio è eloquente. La sua interpretazione gioca sulla distanza, sul mistero: è l’altro, l’irraggiungibile, l’oggetto del desiderio che non si lascia mai pienamente possedere.
Le riprese a Cinecittà non sono solo una scelta logistica, ma parte integrante del discorso estetico del film. Guadagnino ricostruisce il Messico degli anni Cinquanta non in chiave realistica, ma onirica, artificiale, quasi cartoonesca. I fondali dipinti, le scenografie volutamente teatrali, i corridoi che sembrano non finire mai e le stanze che si susseguono come in un labirinto mentale: tutto contribuisce a dare l’impressione che lo spazio sia una proiezione interiore. Non esiste un confine netto tra interno ed esterno, tra sogno e realtà. Questa finzionalità dichiarata non è una distanza, ma una forma di verità ulteriore. Il set si fa psiche. La fotografia di Queer, firmata da Sayombhu Mukdeeprom, è morbida, sfumata, satura nei colori notturni, quasi sempre virata su toni caldi e inquieti. Le luci al neon, i riflessi, i movimenti fluttuanti della camera contribuiscono a creare un’esperienza visiva che sfiora il trip psichedelico, in cui ogni scena sembra sospesa tra la veglia e il sonno. La sceneggiatura, frutto della rinnovata collaborazione con Justin Kuritzkes (già sceneggiatore di Challengers) così come la colonna sonora firmata da Ross/Reznor (Challengers) permette di comprendere quanto i quattro abbiano trovato la loro dimensione nella collaborazione. I temi musicali si fondono con i suoni ambientali, talvolta sfociando nell’astrazione pura, contribuendo a costruire una tensione percettiva costante. Le musiche non accompagnano semplicemente, ma disturbano, insinuano, suggeriscono stati d’animo sotterranei. Il design sonoro, stratificato e sperimentale, gioca con l’asimmetria uditiva e con i vuoti improvvisi, amplificando la percezione di isolamento e alienazione.
Queer è un film che respinge, ma che allo stesso tempo avvolge. Non offre soluzioni, non rassicura, non chiude i conti. È un’opera aperta, vulnerabile, che si espone come il suo protagonista, senza difese. Guadagnino firma un film coraggioso, che conferma la sua volontà di spingersi oltre, di reinventare il proprio linguaggio e di affrontare il cinema come esperienza liminale. In un panorama dominato dalla semplificazione narrativa e visiva, Queer si impone come un atto di resistenza poetica e politica. È una ferita che non si rimargina, ed è proprio in questo che risiede la sua potenza. È un film da sentire più che da comprendere, da attraversare più che da giudicare.